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S. Teresa d’Avila, ovvero: “l’inoppugnabile dimostrazione che il credente è peccatore”
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Una sagace e motivata esposizione di Matteo Castagna di I.C., che smentisce certe erronee convinzioni utilizzate per criticare la Chiesa Cattolica.
“Tra i luoghi comuni che si sentono per dileggiare la Chiesa Cattolica, due sono veramente odiosi perché privi di fondamento: la presunta misoginia che marginalizza le donne e l’equazione secondo cui chi è credente non possa essere peccatore. Sovversione femminista e moralismo puritano? Anche. Soprattutto è ignoranza, custodita con compiacimento per contrastare il Corpo Mistico di Cristo.
Le grandi sante della storia hanno avuto ruoli e compiti straordinari e sono state molteplici. Co-patrona d’Italia è una donna straordinaria, Santa Caterina da Siena. Poi, nella moltitudine tra cui poter scegliere, un posto di particolare importanza ha Santa Teresa d’Avila (1515-1582) perché dimostra con inoppugnabile chiarezza che il credente è peccatore, non potrebbe non esserlo a causa del peccato originale, e che le due caratteristiche non sono in antitesi perché io ho fede proprio perché sono peccatore ed ho bisogno di meritare la redenzione con le buone opere. Se non fossi peccatore, che bisogno avrei di credere?
Entrata nel Carmelo de la Encarnación di Avila, in Castiglia, a vent’anni, scappata di casa, dopo un travagliato percorso interiore che la condusse a quella che definì, in seguito, la sua “conversione” (a trentanove anni), divenne una delle figure più importanti della Riforma cattolica, grazie alla sua attività di scrittrice e fondatrice delle monache e dei frati Carmelitani scalzi, nonché alla fondazione di monasteri in diversi luoghi della Spagna, e oltre (prima della sua morte venne fondato un monastero di Scalzi a Lisbona). Alla faccia dell’“oscurantismo misogino” della Chiesa!
“Io sono molto affezionata a Sant’Agostino perché egli è stato un peccatore. Infatti, dai santi che il Signore poi chiamò a sé, traevo io molto conforto, sembrandomi che in essi io avrei trovato aiuto, e che come il Signore li aveva perdonati, così Egli avrebbe potuto fare con me” – scrisse la grande monaca e mistica nel suo “Libro della Vita”, pubblicato a Salamanca, col placet della Santa Inquisizione, nel 1588.
Il ritratto interiore di Santa Teresa viene definito con l’aggettivo suggestivo “andariega”, ovvero “vagabonda”, attribuitole non solo a causa della sua vivace e movimentata biografia, nonché del carattere battagliero (alla faccia di chi dipinge le cattoliche come tutte dimesse bigotte!) ma anche per la spiritualità del suo «cammino di perfezione», titolo di una sua famosa opera (1566-67). Si tratta di un percorso segnato da una concezione sempre dinamica e creativa della vicenda interiore.
È curioso notare che il nunzio papale dell’epoca, in Spagna, definì suor Teresa «una donna inquieta, vagabonda, disobbediente e contumace». Un bel caratterino, propenso a vari peccati d’orgoglio, che ne dite femministe? Eppure la sua forza di donna cattolica fu saperlo dominare, all’inizio con grande difficoltà, ma poi, man mano aumentava la purezza di coscienza, aumentavano le Grazie divine, sino a giungere al quarto grado dell’orazione e persino all’estasi mistica!
Le pagine della sua autobiografia sono impressionanti, persino spruzzate di umorismo, perché il cattolicesimo non è sempre e per forza austerità in ogni carisma, dotate di un fascino affidato spesso a simboli e a giochi di parole. La trama della sua esistenza è disegnata dalla santa a partire dalla sua famiglia di «genitori virtuosi e timorati di Dio», mentre lei, «con tutto ciò che il Signore mi donava» in realtà era «così misera». Di lì si dispiega il filo appunto di una ruin vida, una «vita misera», che si mette in azione, attratta da una meta superiore, eterna, trascendente, ove si estingue la caducità dell’essere e dell’esistere umano e si dischiude il para siempre, siempre, siempre!
Si comprende, allora, perché al suo sguardo si impone la figura di Gesù Cristo, all’umanità piegata, come la nostra di credenti, dalla vergogna per i nostri peccati, con un volto «bellissimo e maestoso». Egli è «il libro vivo» che suor Teresa d’Avila sfoglia in ogni tappa della sua esistenza, anche quando le tolgono, con la censura ecclesiastica di allora, la Bibbia in lingua volgare, che era prerogativa dei protestanti.
L’intreccio tra fragilità umana ed epifania salvifica si riflette in lei, duramente provata nel fisico da varie sindromi per tutta la vita, eppure libera, bella, luminosa, molto colta e fantastica scrittrice, nonché donna d’azione energica, che sapeva il fatto suo. Basterebbe leggere i capitoli finali 38-40 che «trattano di alcune grandi grazie che il Signore le fece mostrando alcuni segreti del cielo» a lei che era riuscita, attraverso una ferma volontà e ad una preghiera costante, a trasformare l’orgoglio in umiltà, corrispondendo alla Grazia del Suo Gesù.
La sintesi perfetta della vita cristiana, ce la propone proprio Santa Teresa d’Avila, che sa bene quanto siamo cattolici peccatori, ma col dono della virtù di speranza: “Nulla ti turbi, nulla ti spaventi. Tutto passa, solo Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio non manca di nulla: solo Dio basta! Il tuo desiderio sia vedere Dio, il tuo timore, perderlo, il tuo dolore, non possederlo, la tua gioia sia ciò che può portarti verso di lui e vivrai in una grande pace”. E poi: “La somma perfezione non sta nelle dolcezze interiori, nei grandi rapimenti, nelle visioni e nello spirito di profezia, bensì nella perfetta conformità del nostro volere a quello di Dio, in modo da volere anche noi, e fermamente, quanto conosciamo che Egli vuole, accettando con allegrezza tanto il dolce che l’amaro, quando in questo è il Suo volere”.
Redazione da Ag. di inf.