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Papa in Mongolia: un Paese che può avere un “ruolo fondamentale per la pace”
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Si è concluso il viaggio apostolico internazionale in Mongolia di Papa Francesco, che, in quattro giorni, ha incontrato le autorità del Paese nella capitale Ulaanbaatar e la piccola comunità cristiana locale presso la cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, come pure i leader religiosi locali e gli operatori della “Casa della Misericordia”. Un viaggio, il primo di un Pontefice in Mongolia, che ha avuto il significato simbolico di un abbraccio globale ad un Paese, stretto tra Russia e Cina, che – come ha detto il Papa stesso nel suo primo discorso all’autorità – può avere un “ruolo” fondamentale nello scenario internazionale, soprattutto per la pace globale. La visita ha avuto anche l’obiettivo di rivolgere alla piccola, ma vivace comunità cattolica parole di incoraggiamento e di speranza anche per il suo importante contributo nel campo della convivenza e dello sviluppo umano.
Nell’incontro con le autorità e il corpo diplomatico nel Palazzo di Stato, il 2 settembre, Papa Francesco, nel suo primo discorso in Mongolia, presentandosi come “pellegrino di amicizia”, ha auspicato: “Voglia il Cielo che sulla terra, devastata da troppi conflitti, si ricreino anche oggi, nel rispetto delle leggi internazionali, le condizioni di quella che un tempo fu la pax mongolica, cioè l’assenza di conflitti. Come dice un vostro proverbio, ‘le nuvole passano, il cielo resta’: passino le nuvole oscure della guerra, vengano spazzate via dalla volontà ferma di una fraternità universale in cui le tensioni siano risolte sulla base dell’incontro e del dialogo, e a tutti vengano garantiti i diritti fondamentali!”. Poi l’appello:
“Qui, nel vostro Paese ricco di storia e di cielo, imploriamo questo dono dall’Alto e diamoci da fare insieme per costruire un avvenire di pace”. E a poi rimarcato:
“la Mongolia non è solo una nazione democratica che attua una politica estera pacifica, ma si propone di svolgere un ruolo importante per la pace mondiale”.
Nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, sempre il 2 settembre, il Pontefice ha incontrato vescovi, sacerdoti, missionari, consacrati e consacrate e operatori pastorali presenti nella Chiesa in Mongolia. Un incoraggiamento alla piccola comunità nelle sue parole: “Fratelli, sorelle, non abbiate paura dei numeri esigui, dei successi che tardano, della rilevanza che non appare. Non è questa la strada di Dio”.
Il Santo Padre ha anche elogiato l’impegno in oltre trent’anni in una svariata quantità di iniziative di carità: “Vi incoraggio a proseguire su questa strada feconda e vantaggiosa per l’amato popolo mongolo. Al tempo stesso vi invito a gustare e vedere il Signore, a tornare sempre e di nuovo a quello sguardo originario da cui tutto è nato. Senza di esso, infatti, le forze vengono meno e l’impegno pastorale rischia di diventare sterile erogazione di servizi, in un susseguirsi di azioni dovute, che finiscono per non trasmettere più nulla se non stanchezza e frustrazione”. Una rassicurazione poi alle autorità:
“I governi e le istituzioni secolari non hanno nulla da temere dall’azione evangelizzatrice della Chiesa, perché essa non ha un’agenda politica da portare avanti, ma conosce solo la forza umile della grazia di Dio e di una Parola di misericordia e di verità, capace di promuovere il bene di tutti”.
Due i momenti salienti di domenica 3 settembre. L’Incontro ecumenico e interreligioso all’Hun Theatre e la messa celebrata nella “Steppe Arena”. L’impegno che il Papa ha chiesto alle diverse fedi, pronte ad offrire la bellezza rappresentata dagli insegnamenti dei “rispettivi maestri spirituali”, è questo:
“In società pluralistiche e che credono nei valori democratici, come la Mongolia, ogni istituzione religiosa, regolarmente riconosciuta dall’autorità civile, ha il dovere e in primo luogo il diritto di offrire quello che è e quello che crede, nel rispetto della coscienza altrui e avendo come fine il maggior bene di tutti”.
Non solo: “La nostra responsabilità è grande, specialmente in quest’ora della storia, perché il nostro comportamento è chiamato a confermare nei fatti gli insegnamenti che professiamo – ha osservato -; non può contraddirli, diventando motivo di scandalo. Nessuna confusione dunque tra credo e violenza, tra sacralità e imposizione, tra percorso religioso e settarismo. La memoria delle sofferenze patite nel passato – penso soprattutto alle comunità buddiste – dia la forza di trasformare le ferite oscure in fonti di luce, l’insipienza della violenza in saggezza di vita, il male che rovina in bene che costruisce”. E ancora un appello per la pace:
“Le tradizioni religiose, nella loro originalità e diversità, rappresentano un formidabile potenziale di bene a servizio della società. Se chi ha la responsabilità delle nazioni scegliesse la strada dell’incontro e del dialogo con gli altri, contribuirebbe in maniera determinante alla fine dei conflitti che continuano ad arrecare sofferenza a tanti popoli”.
Nella messa Francesco ha sottolineato che “tutti, tutti noi siamo ‘nomadi di Dio’, pellegrini alla ricerca della felicità, viandanti assetati d’amore” e che “la fede cristiana risponde a questa sete; la prende sul serio; non la rimuove, non cerca di placarla con palliativi o surrogati: no! Perché in questa sete c’è il nostro grande mistero: essa ci apre al Dio vivente, al Dio Amore che ci viene incontro per farci figli suoi e fratelli e sorelle tra di noi”. Alla fine della celebrazione il Pontefice, con un gesto a sorpresa, facendo avvicinare a sé, John Tong Hon e Stephen Chow, l’emerito e l’attuale vescovo di Hong Kong, quest’ultimo cardinale designato che riceverà la porpora nel Concistoro del prossimo 30 settembre, ha rivolto
“un caloroso saluto al nobile popolo cinese”.
E ha continuato: “A tutto il popolo auguro il meglio, e andare avanti, progredire sempre! E ai cattolici cinesi chiedo di essere buoni cristiani e buoni cittadini”.