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Giornata dei poveri, Francesco: mettere la nostra spalla sotto la croce degli ultimi
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“Non distogliere lo sguardo da ogni povero” (Tb, 4, 7). E’ la parola di Dio tratta dal libro di Tobia con cui Papa Francesco introduce la settima Giornata mondiale dei poveri. Parola che non lascia spazio all’indifferenza, infatti “quando siamo davanti a un povero – spiega il Pontefice – non possiamo voltare lo sguardo altrove, perché impediremmo a noi stessi di incontrare il volto del Signore Gesù”. (Sir)
L’esperienza dell’incontro con Gesù contribuisce a muovere tanti uomini e donne di buona volontà ad impegnarsi nell’accoglienza dei poveri “eppure non basta” ci avverte il Pontefice, perché “un fiume di povertà attraversa le nostre città e diventa sempre più grande fino a straripare; quel fiume sembra travolgerci, tanto il grido dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto, sostegno e solidarietà si alza sempre più forte”.
Questo messaggio ci scuote e ci dà un orientamento e una chiave di lettura precisa: è la realtà, sempre più drammatica, che stiamo vivendo in questi ultimi mesi. Il ritorno della guerra in Europa in seguito all’invasione russa dell’Ucraina; centinaia di migliaia di persone che emigrano in fuga da conflitti e povertà; il massacro di innocenti in Israele ed i bombardamenti nella Striscia di Gaza. Davvero un fiume che straripa e che sembra travolgerci. Situazioni che si aggiungono alle realtà di povertà che abbiamo vicino alle nostre case.
L’urgenza di rimuovere le cause di tali ingiustizie, sprona ed esorta la Comunità Papa Giovanni XXIII a “seguire Gesù, povero e servo e a condividere la vita degli ultimi” secondo il suo specifico carisma, ricevuto dal Signore, attraverso il fondatore don Oreste Benzi, come strumento di evangelizzazione e come dono per tutta la Chiesa.
Questa scelta vocazionale interiore si traduce in una scelta di vita visibile che consiste proprio nel condividere direttamente la vita con gli ultimi. Mettere la vita con la vita dei piccoli, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno, ci aiuta a vivere questa vicinanza ai poveri come via di santificazione. Essere famiglia di chi non ha famiglia, mettere al centro la persona e non il suo limite sono gli ingredienti di una proposta di vita aperta a tutti, in particolare alle famiglie. Don Benzi ripeteva che “per stare in piedi bisogna stare in ginocchio”, bisogna entrare in sintonia con il Signore.
La condivisione diretta si regge sulle ginocchia perché è una scelta di fede e non un impegno. È in sé una proposta di giustizia, perché camminare al passo del migrante, del disabile, dell’anziano fa vivere sulla propria pelle le ingiustizie che loro vivono e fa prendere coscienza dell’importanza di provare a rimuovere tali ingiustizie per una società più giusta.
Il Santo Padre lo spiega bene nel suo messaggio: “Tobi, nel momento della prova, scopre la propria povertà, che lo rende capace di riconoscere i poveri. È fedele alla Legge di Dio e osserva i comandamenti, ma questo a lui non basta. L’attenzione fattiva verso i poveri gli è possibile perché ha sperimentato la povertà sulla propria pelle”.
Cinquant’anni fa il sacerdote dalla tonaca lisa, infaticabile apostolo della carità come lo ha definito Benedetto XVI, aprì la prima casa famiglia per accogliere prima i disabili, poi i bambini senza famiglia. Una rivoluzione che di recente il Santo Padre ha spiegato ricevendoci in udienza. “Oggi, qui con voi, – ha detto il Papa – voglio sottolineare che le ‘case famiglie’ sono nate dalla mente e dal cuore di Don Oreste Benzi.
Lui era un prete che guardava i ragazzi e i giovani con gli occhi di Gesù, con il cuore di Gesù. E stando vicino a quelli che si comportavano male, che erano sbandati, ha capito che a loro era mancato l’amore di un papà e di una mamma, l’affetto dei fratelli. Allora Don Oreste, con la forza dello Spirito Santo e il coinvolgimento di persone a cui Dio dava questa vocazione, ha iniziato l’esperienza dell’accoglienza a tempo pieno, della condivisione della vita; e da lì è nata quella che lui ha chiamato ‘casa famiglia’. Un’esperienza che si è moltiplicata, in Italia e in altri Paesi, e che si caratterizza per l’accoglienza in casa di persone che diventano realmente i propri figli rigenerati dall’amore cristiano. Un papà e una mamma che aprono le porte di casa per dare una famiglia a chi non ce l’ha.
Una vera famiglia; non un’occupazione lavorativa, ma una scelta di vita. In essa c’è posto per tutti: minori, persone con disabilità, anziani, italiani o stranieri, e chiunque cerchi un punto fermo da cui ripartire o una famiglia in cui ritrovarsi. La famiglia è il luogo dove curare tutti, sia le persone accolte sia quelle accoglienti, perché è la risposta al bisogno innato di relazione che ha ogni persona”.
La relazione, “il bisogno innato di relazione”, ci porta a mettere la nostra spalla sotto la croce degli oppressi, dei diseredati, degli scartati. Quando si fa questo, allora non c’è tanto bisogno di spiegare, di parlare. È un linguaggio universale che può essere applicato a tutte le culture e nei più variegati contesti, è lo stile della nonviolenza che disinnesca la violenza, è il regno della Pace che rende inutile e insensata la guerra.
Redazione da A. di inf.