MESSINA – La Divina Commedia in originale, e come l’ha tradotta in siciliano Rosa Gazzara.
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Una singolare e stimolante traduzione della Divina Commedia in siciliano, che riesce a riportare fedelmente nella lingua siciliana tutte le particolarità espressive, in grado di creare quadri e atmosfere vigorosi e affascinanti.
Avere modo di assaporare, con rinnovato piacere letterario, l’opera grandiosa della Divina Commedia di Dante Alighieri, non solo fa si che chi legge si arricchisca di contenuti di grande valore intellettuale, ma che ne abbia anche rinfrancato lo spirito per via dei temi affascinanti espressi da una poesia ricca di significati spirituali e profetici.
Inoltre, naturalmente, si ha l’occasione impagabile di poter godere degli straordinari momenti emozionanti di un viaggio spettacolare, che si snoda sull’onda carezzante della musicalità e purezza poetica di versi immortali. Specialmente quelli avvincenti, rimasti impressi nella memoria collettiva, dedicati a dipingere lo scenario drammatico e affascinante della Cantica dell'”Inferno”.
Nel presentare, adesso, qui, diversi brani, tra i più importanti, delle tre Cantiche, ci è data l’occasione unica di poter accedere all’immaginifico racconto poetico di Dante, anche attraverso una singolare traduzione in lingua siciliana. Un’eccezionale impresa letteraria realizzata da Rosa Gazzara Siciliano, scrittrice messinese già sperimentata traduttrice, dall’italiano in lingua siciliana, di altre opere classiche fra cui l’Odissea e l’Eneide.
Le terzine di Dante in italiano verranno affiancate a quelle in siciliano, così da poter avere un utile parallelo di confronto. Del I Canto, intanto, vengono pubblicate solo le prime 10 terzine.
Insieme a questa prima parte, i brani successivi verranno pubblicati nella pagina “altre…”.
La Redazione
“Il primo canto è l’introduzione generale del poema, il preludio. Dante usa un linguaggio narrativo affidandosi ad una tecnica simbolica e figurale, vale a dire ciò che narra ha un valore concreto e reale, ma nel contempo nasconde altri significati.
Siritrova smarrito per una selva oscura, tenta di ascendere un colle luminoso e ne è impedito da tre fiere; la lonza, il leone e la lupa. Nel significato allegorico la prima rappresenta L’incontinenza, la seconda la superbia, la terza la lussuria. Ad un tratto gli appare Virgilio, che gli si offre come guida attraverso i regni del peccato e della puroficazione e gli dice che ad un certo momento sarà accompagnato verso il regno della beatitudine da una creatura più degna. Il canto si svolge dall’alba al tramonto (è il venerdi santo 8 aprile 1300)”.
Rosa Gazzara
I canto I Cantu
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ah quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinnova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’io vi trovai,
dirò de 1’altre cose ch’io v’ho scorte.
Io non so ben ridir com’io v’entrai,
tant’era pieno di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto, e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogni calle.
Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’io passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a rietro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’ei posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia deserta,
sì che’1 piè fermo sempre era ‘1 più basso.
‘Mmenz’a lu viaggiu di la nostra–vita
mi ritruvai ‘ntra ‘na furesta scura,
ch’a strata d’a virtù avia spirduta.
Ahi quantu a fari un quatru è cosa dura
di stu postu sarvaggiu e aspru e forti
ch’a lu pinzeri lu me’ cori oscura!
È appena menu amaru di la morti;
ma pi spiegari ‘u beni chi ‘ncuntrai,
a lu ricordu aprirò li porti.
Jò non mi rennu cuntu comu mai
mi vitti ddà; c’a testa ‘i sonnu china
ch’a strata lustra e chiana ‘bbannunai.
Ma quannu fui e’ ped’i ‘na collina
propriu ‘nt’o punt’unni finìa dda valli
unn’u scantu avia stat’a me’ ruina,
vardai pri supra e vitti raggi a milli
di ddu pianeta chi suli si dici
chi ‘mmustr’a dritta via senza falli.
Allura ‘u cori un pocu truvau paci
di ddu ‘nfamuni e torbidu terruri
ch’avia bruciatu comu fa la braci.
E comu cu’, nisciutu di lu mari,
‘ffannatu e stancu doppu la ruina
si vot’ancora, ó scantu di ‘nniari,
‘ccussì lu cori me’, strazziat’i pena,
si vutò arreri, ‘u passu a rivardari
d’unni viventi mai niscìu pirsuna.
Mi potti ‘na picchidda ripusari;
poi ripigghiai la sulitaria via
e allèggiu allèggiu accuminzai a ‘cchianari.