Parole, citazioni e tabù liberamente, durante l’oppressione da Covid-19
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L’espressione “ai tempi del coronavirus”, che oggi viene ripetuta in modo martellante, soprattutto nei mezzi di comunicazione di massa, nasce da un’assonanza traballante con il titolo del famoso romanzo “L’amore ai tempi del colera”. Il soggetto è variabile: “la vita”, “la politica”, “l’arte”, “la spiritualità”, “ la cucina”… c’è di tutto “ai tempi del coronavirus”.
Sebbene non abbia niente a che fare con la splendida storia d’amore narrata da Gabriel García Márquez, né con il colera che, pur avendo mietuto milioni di vittime nel corso del XIX secolo, ha in comune con il “coronavirus” solo il fatto di essere di origine asiatica, il tormentone ha comunque un senso: quello di evocare, in modo subliminale, un concetto positivo e rassicurante come l’amore, per sdrammatizzare, in tempi così tragici, l’angoscia che stiamo vivendo.
La verità è che “ai tempi di” implica per noi come un salto nel futuro, quando finalmente ne saremo fuori, per ricordare, se tutto andrà bene, questo periodo che nessuno avrebbe mai pensato di vivere e l’atmosfera inquietante e surreale, in cui siamo stati catapultati improvvisamente, come dentro un terrificante film di fantascienza.
E vorremmo tutti già essere oltre, al momento in cui finalmente torneremo alla vita normale, per godere di ciò che prima sembrava una scontata quotidianità e che ora ci appare come un pezzo di paradiso.
Il virus ha avuto varie denominazioni: prima era 2019-nCoV, in quanto è stato identificato per la prima volta a Wuhan nel dicembre del 2019, poi SARSCoV2. Dall’11 febbraio ha preso la forma ufficiale, annunciata dall’OMS, di COVID-19 (Corona Virus Disease ). Attualmente si è creato un doppione: la forma tecnica COVID-19, utilizzata in ambito
scientifico e in quasi tutti i mezzi di comunicazione e Coronavirus dell’italiano colloquiale, diffuso nella lingua parlata in quanto più semplice dell’acronimo inglese: “corona” è una metafora del virus, per le
punte a forma di corona presenti nella sua superficie. È una parola italiana, che deriva dal latino corona(m), a sua volta dal greco korone, e nella lingua comune indicava e indica un ornamento di forma circolare, ornato di fronde, fiori o pietre preziose ed è simbolo di gloria o di vittoria: in pratica un “virus con la corona”. Gli scienziati trovano invece il termine coronavirus riduttivo e poco chiaro per indicare l’attuale malattia, in quanto non si riferisce solo al virus in questione ma alla famiglia dei coronavirus a cui appartiene: perciò è stato specificato anche l’anno della comparsa.
Secondo una guida pubblicata dall’OMS nel 2015, la comunità scientifica, nello scegliere il nome da dare alle malattie, deve evitare quello di aree geografiche, di culture e popolazioni (perciò il presente virus non va chiamato né cinese né asiatico), espressioni di contenuto crudo o sgradevole e persino i nomi di alimenti o di animali: in pratica che sia stato lo zibetto, il pipistrello, il serpente o il pangolino, per rispetto ad essi, nessuno di questi animali va nominato, anche se si scopre chi è l’ignaro colpevole dell’epidemia, in realtà innocente visto che è stato l’uomo a mangiarselo.
Non sappiamo se in futuro, quando l’epidemia sarà solo un ricordo, il nome sarà cambiato e quale prevarrà, forse si dirà semplicemente Covid, perché i parlanti da un lato amano le forme tecniche, più forti e dirette, dall’altro, per comodità, accorciano le espressioni complesse. Ricordiamo tuttavia che dire “il virus COVID-19” è una tautologia, come se dicessimo “ virus CORONA VIRUS DISEASE– 19”.
Come la parola “corona”, anche il termine “virus” è roba nostra, anche se i primi ad averlo usato sono stati i francesi, e deriva dal latino virus, che a sua volta proviene dal greco ios, entrambi con lo stesso significato di “veleno, umore velenoso”. Pertanto dire “corona /vairus/” con la pronuncia inglese è un ipercorrettismo inopportuno, qui in Italia; analogamente, la forma ipercorretta The Crown virus, che si trova online in qualche sito estero, non è ammessa, se non per qualche videogame che circola con questo nome. Coronavirus al momento va bene: è un nome che evoca qualcosa di diverso dalla realtà spaventosa che simboleggia e pertanto è più accettata dai parlanti.
È sempre successo con le malattie: pensiamo alla tubercolosi largamente diffusa nei secoli scorsi, quando si chiamava tisi (dal greco phtìsis “consunzione, deperimento”), nome che poi venne sostituito, nel linguaggio comune, dal più generico mal sottile, che alludeva alla magrezza di chi ne era affetto. Così come oggi non pronunciamo volentieri la parola cancro, ma diciamo piuttosto male incurabile, il brutto male.
Chissà, un giorno, fra le due definizioni, quella in cui appare la corona e quella in cui la corona è decurtata in CO, quale prenderà il sopravvento! Speriamo che corona (non quella virale) non diventi per sempre un tabù. L’assonanza con l’omonima birra, com’è noto, ha creato danni di miliardi allo storico marchio messicano, soprattutto in Cina, ma anche negli Stati Uniti e in Europa dove sono crollate le vendite, non appena si è diffusa la malattia. Il messaggio inconscio era questo: “dite Corona e vi contagerete, se poi la Corona la berrete, entrerà direttamente nel vostro corpo”.
L’uomo è portato ad attribuire alla lingua un valore magico ed evocatore della realtà, dimenticando che la parola è solo un simbolo e pertanto innocua.
Anche i nostri lontani antenati hanno temuto le influenze virali come mostruosi effluvi mortali, che avrebbero sterminato il genere umano. Ci sarà stato un momento, in occasione di una nuova malattia contagiosa, che si presentava con febbre e tosse e poteva causare la morte, in cui occorreva trovarle un nome particolare per designarla, perciò utilizzarono una parola latina, che fu la lingua della scienza per secoli, scegliendo influentia dall’espressione ab occulta coeli influentia (XIII sec.), malattia causata “da un’occulta influenza del cielo”. Il nome influenza è rimasto, l’origine dell’attuale morbo è ancora un mistero.
Coraggio! se ne liberarono i nostri avi, ce ne libereremo anche noi.
Lucia Abbate