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Nella lotta contro Covid-19: quante roboanti parole di guerra, ma anche preghiera e amore
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Quando Walter Ricciardi, membro dell’esecutivo dell’Oms e consulente del ministero della Salute, ha annunciato la seconda pandemia del XXI secolo dopo la SARS del 2002-2003, ha parlato di una lunga guerra che avrebbe richiesto un dispiegamento di forze senza precedenti e una grande compattezza.
Non mancano i continui riferimenti alle guerre mondiali del secolo scorso e non solo in Italia: Angela Merkel si è rivolta alla nazione con un messaggio in cui definisce la situazione odierna come la sfida più grande dopo la seconda guerra mondiale che non dipende solo, ma anche, da quanto ciascuno seguirà con disciplina le regole.
Mercoledì 11 marzo 2020, all’ospedale di Como, dopo avere contratto il coronavirus, è morto Roberto Stella, 67 anni, presidente dell’Ordine dei medici di Varese. È stato definito dai giornalisti “uno dei medici in prima linea”, “un lottatore”, “un eroe”, “ il comandante della battaglia”. Come lui migliaia di altri combattenti, vittime del coronavirus “morti sul fronte”, che hanno lasciato dietro di sé ammirazione, costernazione e dolore.
Si parla di un altro esercito in trincea per combattere il coronavirus: ‹‹quello discreto, quasi invisibile, delle suore. Che siano infermiere o di clausura, che si occupino di assistere i più poveri o che vadano in soccorso dei familiari delle persone colpite dalla malattia, tutte imbracciano due armi potenti: la preghiera e l’amore››.
Del linguaggio bellico con cui è trattata l’emergenza Covid-19 hanno parlato in tanti : Siamo in guerra! Il Coronavirus e le sue metafore è il titolo di un articolo di Daniele Cassandro, in “Internazionale” del 22 marzo 2020, in cui si guarda all’impatto negativo che il concetto di guerra potrebbe avere sui malati. Salvarsi e non soccombere non è una questione di valore militare, ma di ben altro, spesso anche di fortuna. Alcuni attribuiscono ai politici l’insistenza sulla metafora bellica: il sociologo Fabrizio Battistelli esorta a non sprecare metafore e concetti poco pertinenti, perché è diversa l’essenza di epidemia da quella della guerra.
Personalmente penso che il confronto con la guerra, al di là dei significati comuni come sofferenza, privazione, abnegazione, lotta, vita o morte nella solitudine e nello sconforto, non sia perfettamente calzante; se non altro perché, a differenza della guerra, in questo flagello manca l’intenzionalità dell’uomo nel fare del male. La realtà è già di per se stessa tragica: non aggiungiamo altri drammatici “significanti”.Corriamo il rischio di passare realmente alle armi, per “analogia”. In America si corre all’acquisto di pistole, mitragliatrici, munizioni: ‹‹Da Los Angeles a Houston, da Filadelfia a Denver in Colorado i negozi di armi hanno fatto più business che mai››
Sarebbe il caso che ci limitassimo a usare parole che spaventano più di quanto il mondo intero non sia già spaventato. Lascerei al massimo il verbo “debellare”, fra le tante parole del lessico di guerra, che è almeno accettabile per il suo valore propiziatorio, dal latino debellare “sconfiggere radicalmente”, da de ( “fuori da”, “completamente”) e un derivato di bellum “guerra”.
Si prenda esempio dal Presidente Mattarella che preferisce espressioni più schiette e pertinenti, come “difficile emergenza” “una pagina triste della nostra storia”, che almeno ci comunicano la transitorietà di questo momento. Avrà pensato alla guerra passata, certamente, ma con il pensiero rivolto a chi quella guerra l’ha realmente vissuta, come quando ha chiamato personalmente al telefono un anziano di Samo, comune della provincia di Reggio Calabria, ex partigiano di 98 anni, che gli aveva mandato un video messaggio, per esprimergli la sua ammirazione.
Il Papa, sul sagrato della Basilica di San Pietro, davanti a una piazza vuota, il 28 marzo scorso ha pregato per la fine della pandemia. Ha scelto un passo dal Vangelo secondo Marco, quando Cristo disse ai suoi discepoli di passare sull’altra riva. Ci fu una grande tempesta, durante la quale Gesù aveva dormito sereno; i discepoli lo svegliarono spaventati. Poi il vento e le acque si calmarono.“Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Anche oggi, ha spiegato il Pontefice, siamo stati furiosamente colpiti da un tempesta inaspettata. E siamo tutti sulla stessa barca, fragili e disorientati, importanti e necessari in un reciproco conforto.
La tempesta è una bella metafora, non implica malvagità, non nasce dall’odio fra fratelli, non ha bisogno di armi per essere allontanata: la tempesta come viene se ne va, lasciandoci sereni e più forti, se siamo uniti e fiduciosi.
Lucia Abbate