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Coronavirus e Chiesa: l’insofferenza dei cattolici per la protratta esclusione dai luoghi di culto
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E’ già trascorso troppo tempo di reclusione forzata, e i cattolici, per l’esclusione dalle funzioni religiose e la chiusura delle chiese, privati dei benefici spirituali per il mancato contatto con le parrocchie, le celebrazioni liturgiche, i Sacramenti e il rapporto sociale di mutuo sostegno con i fratelli, sentono il peso di una costrizione divenuta ormai insopportabile. “Le decisioni della Cei di sospendere ogni messa e funzione religiosa in tutta Italia, in ottemperanza al lockdown deciso dalle rigide disposizione governative per contenere l’epidemia di Coronavurus, sono state accolte dai fedeli malvolentieri”. Ma anche all’interno del mondo ecclesiastico sono state “accettate non senza attriti e disparità di vedute”. “Di fronte alla odierna situazione, che vede morire ogni giorno centinaia di persone, la Chiesa, con porte spalancate e sacerdoti disponibili a dispensare sacramenti e benedizioni, avrebbe dovuto essere in prima linea a dare il proprio fondamentale conforto e sollievo spirituale”.
La straordinaria decisione della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) di sospendere ogni messa e funzione religiosa in ottemperanza al lockdown deciso dalle rigide disposizioni governative in tutta Italia, per contenere l’epidemia di coronavirus, – come mette in evidenza il servizio di Lupo Glori – è stata accettata malvolentieri, e anche con parecchie resistenze. Il fatto che le chiese siano state considerate luoghi da chiudere, come musei, parchi, negozi, ecc., in nome della suprema e prioritaria tutela della salute pubblica, “tanto”, si è detto, “ognuno può mettersi in contatto con Dio come e quando vuole”, non è stata accettato senza attriti anche all’interno del mondo ecclesiastico. A indicare una “disparità di posizioni”, – mette a fuoco il servizio – sono state, a suo tempo, l’arcidiocesi di
Catania, la diocesi di Acireale e quella di Caltagirone – rette, rispettivamente, da Salvatore Gristina, Antonino Raspanti (quest’ultimo tra i vicepresidenti della Cei) e Calogero Peri – che, hanno precisato di “non voler entrare in un clima di polemiche”, ma hanno lasciato aperti i luoghi di culto “per chi volesse entrare a pregare, per vivere il sacramento della Riconciliazione, per scambiare una parola con il sacerdote”.
“Tutti siamo d’accordo sulla responsabilità da esercitare – avevano affermato Gristina, Raspanti e Peri – ma sul come esercitarla, ad esempio: se chiudere totalmente le Chiese o no, c’è stata disparità di posizioni. Siamo consapevoli che ogni scelta, in situazione di grave emergenza come l’attuale, apre a considerazioni persino contrapposte; è tuttavia un atto di discernimento pastorale – la sottolineatura dei presuli – che cerchiamo di compiere ascoltando lo Spirito nella comunione della Chiesa, a servizio del Popolo di Dio”.
In sostanza, in questa straordinaria emergenza sanitaria, è successo qualcosa di eccezionale non facilmente riscontrabile negli annali: la Chiesa cattolica è stata indotta ad abdicare alla propria specifica missione di assistenza pastorale e cura della salute delle anime, “facendosi da parte” in questo momento eccezionale, in quanto non ritenuta in grado di poter dare un contributo utile alla causa. Anche se poi è stato disposto che restino “aperte le chiese parrocchiali e quelle che sono sedi di missioni con cura di anime ed equiparate”. E lo stesso Papa Francesco ha sentito la necessità di lanciare un monito ai vescovi sottolineando che “le misure drastiche non sempre sono buone”, pregando che “lo Spirito Santo dia ai pastori la capacità e il discernimento pastorale affinchè provvedano misure che non lascino da solo il santo popolo fedele di Dio”.
Di fatto però, l’impegno da dedicare al momento critico emergente è stato demandato esclusivamente alla scienza, agli “esperti”: medici e diversi tecnici della materia, mentre nessuno spazio è stato concesso alla Chiesa e ai sacerdoti, giudicati non capaci di fornire un contributo nella gestione della gravità e complessità della pandemia in corso.
La valutazione degli avvenimenti, quindi, è stata data secondo un punto di vista che guarda la realtà attraverso on’ottica puramente terrena, materialistica, senza tenere conto della dimensione soprannaturale. Sono punti di vista comprensibili se pronunciati da persone che non credono nell’esistenza di cause e fini che trascendono la realtà. Se infatti Dio non c’entra nulla con il coronavirus, i riti religiosi non servono, allora, certamente, la preghiera, i sacramenti, le benedizioni, ecc., non hanno alcun senso, in quanto non possono apportare alcun beneficio, ed è quindi logico essere d’accordo con la chiusura delle chiese alla pari della chiusura dei musei, dei cinema, dei ristoranti, ecc.
Ma se, al contrario, – è la conclusione logica – si crede nell’esistenza di una dimensione trascendente e soprannaturale, mai come in momenti come questi le persone hanno bisogno di incoraggiamento e assistenza spirituale, e quindi di chiese spalancate e sacerdoti disponibili a dispensare, ad ogni ora, sacramenti e benedizioni. Accanto alla necessaria cura del corpo vi sta infatti la ben più importante cura dell’anima e, di fronte alla odierna situazione, che vede morire ogni giorno centinaia di persone, la Chiesa con i suoi sacerdoti avrebbe dovuto essere in prima linea a dare il proprio fondamentale conforto e sollievo spirituale.
Redazione da ag. di i.